Come mai ci ricordiamo esattamente i motivetti delle pubblicità televisive della nostra infanzia? Perché, nonostante fossero così efficaci, oggi sono definitivamente superati? Come si sono estinti i jingle?

Proviamo a ripercorrerne la storia, a vedere le loro potenzialità, i loro limiti e a capire perché oggi stanno lasciando il passo ad altro.

Che cos’è un jingle?

Prima di tutto: cosa si intende quando parliamo di jingle?

Prendiamo pure per buona la definizione di Wikipedia: traduzione dall’inglese di “tintinnio”, come “un breve motivo musicale che annuncia o accompagna, in genere, uno spot pubblicitario trasmesso dai mezzi di comunicazione di massa radio-televisivi.

Già nella prima parte della definizione si può scorgere qualcosa di sorpassato, visto il solo riferimento a radio e televisione come mezzi di trasmissione dei messaggi. Continua con:

“… di solito allegro e dalla linea melodica semplice, ha lo scopo di attirare l’attenzione dello spettatore verso il messaggio pubblicitario veicolato o di richiamare alla memoria il prodotto reclamizzato.

Se hai già fatto un giro sul nostro blog, sai benissimo perché queste caratteristiche ormai non sono più utili nella costruzione di una sound identity efficace e coerente. Se non l’hai fatto puoi recuperare qui.

Da dove nasce?

Con un focus sull’Italia, la storia del jingle come strumento pubblicitario affonda le sue radici alla fine degli anni ’50.

Anche i più giovani oggi sono a conoscenza di Carosello, la trasmissione televisiva che per vent’anni dal 1957 proponeva in prima serata sul canale Programma Nazionale (antenato di Rai 1) una serie di sketch comici e di messaggi pubblicitari. Questa trasmissione fu innovativa per l’introduzione della réclame come mezzo pubblicitario in televisione e della diffusione di messaggi commerciali sotto forma di intrattenimento.

Per il momento storico in cui andava in onda l’aspetto più inedito che ci interessa era la brevità, soprattutto degli spot, in cui si proponeva la promessa delle qualità dei prodotti pubblicizzati attraverso veri e propri slogan musicali. Poteva succedere che essi si accompagnassero addirittura a una melodia già nota, come nel caso del “Voglio la caramella che mi piace tanto e che fa du-du du-dù du-du du-dù Dufour”, cantato da Marisa Del Frate e basato su una canzone del 1932.

Dagli anni ’70 agli anni ’90, con la nascita di Fininvest e di Publitalia ’80, la pubblicità in TV acquistava sempre più valore, iniziando a interrompere le trasmissioni e a non essere proposta in un momento apposito. Nel contesto pubblicitario di allora si sono sviluppati i primi jingle veri e propri, che si basavano sull’effetto ricordo, qualcosa di simile a parte del lavoro che fa l’audio branding oggi. Negli anni ’90, con la legge Mammì e l’avvento delle TV private e delle pay TV, la commercializzazione dei prodotti a livello televisivo è diventata una vera e propria fonte di reddito per i broadcaster e il ventennio successivo è stato l’apice della storia del jingle.

Quando è stato l’apice dei jingle?

La pratica del jingle, soprattutto negli anni 2000, trovava fortuna nelle pubblicità televisive che rimanevano impresse nella memoria di chi fruiva dei prodotti televisivi di intrattenimento, attraverso piccoli e piacevoli slogan musicali basati sulle parole del messaggio pubblicitario.

Il terreno fertile per questi motivetti era costituito dalla durata degli spot, ancora superiore al minuto, e permetteva di sottolineare:

  • Una caratteristica del prodotto, come la cremosità dei budini Muu Cameo, la velocità di preparazione delle Panatine Rovagnati o la naturalezza della Robiola Osella;
  • L’utilizzo possibile dello stesso, come il consumo in compagnia della cedrata Tassoni;
  • La superiorità commerciale del proprio prodotto, come i detergenti Chanteclair o Rio Casamia, la freschezza dei prodotti Valfrutta, la prontezza del servizio di Carglass e la comodità delle calze Pompea;
  • Semplicemente il nome del prodotto, come i prestiti Compass, i cereali Miel Pops, i ghiaccioli Polaretti o il numero dei servizi telefonici 892 892, 1240 o 1288.

Il lento declino

La rivista statunitense The Atlantic, ha trovato che solo negli USA, nel 1988 si trovavano 153 jingle in 1279 spot, mentre nel 2011 questo rapporto è sceso a 8 su 306, dal 12% al 2,6%. Al di là delle ricerche, è evidente che gli spot musicali sono quasi del tutto spariti, a parte alcuni vecchi jingle riproposti che tentano di sfruttare la nostalgia di alcuni consumatori. Ma come mai jingle sono scomparsi? Le ragioni sono molteplici.

Siamo sempre meno attenti

Abbiamo più volte riflettuto sul fatto che la nostra soglia di attenzione agli stimoli multimediali si sia ridotta drasticamente negli ultimi 25 anni da 20 a circa 3 secondi. La causa di questo proviene principalmente dall’intrattenimento audiovisivo: i ritmi accelerati dei contenuti dei social network, per esempio, hanno influito sulla nostra capacità di accogliere informazioni in un tempo sempre minore. Se qualche anno fa un contenuto multimediale di un’azienda doveva durare almeno due minuti, oggi un video pubblicitario di più di un minuto e mezzo è quasi considerato un cortometraggio. Non a caso una via commerciale molto utilizzata in questo momento è quella rappresentata dai TikTok, dalle storie e dai reel di Instagram.

Costerebbe troppo

Se considerassimo unicamente l’ambito pubblicitario, la realizzazione di spot lunghi in cui far stare comodamente un jingle sarebbe troppo dispendiosa per le aziende. Tra l’altro questo è uno dei motivi per cui Carosello è stato chiuso nel 1977.

Interattività dei media

Se prima gli spettatori televisivi percepivano le pubblicità stesse come parte dell’intrattenimento, oggi non è più così e tutti noi ci stufiamo molto facilmente: basta pensare al bottone “Salta l’annuncio” che compare dopo pochi secondi dall’inizio dei video su Youtube. Il potenziale cliente freme in attesa di premere il pulsante (gioia pura quando arriva, no?) e il tempo che rimane non è sufficiente per un motivetto.

Perché oggi si usa altro?

Oltre all’incompatibilità dei jingle con il sistema mediatico odierno, il punto focale di cui le aziende si sono accorte è la loro mancanza di efficacia comunicativa, di marketing, e di branding. I principali difetti che hanno causato il passaggio dai jingle alle pratiche di audio branding sono tre:

Limitatezza

I jingle si sono sempre basati sulle parole del messaggio pubblicitario, quindi sulla singola campagna e non sul brand, pertanto non hanno mai contribuito a costruire una brand identity, ma erano volti solamente alla vendita di un singolo prodotto. Non accrescevano il valore del marchio ed era difficile individuarne un utilizzo al di là della pubblicità televisiva. Allo stesso modo, soprattutto per i jingle che insistevano solamente sul nome del prodotto, si aveva una ridotta possibilità di trasmettere la personalità del brand e di allargarne il raggio di azione.

Unidirezionalità

I jingle erano tutti allegri, sempre. Ma perché? Da un lato mancavano gli studi relativi ai comportamenti della mente umana che oggi abbiamo e su cui l’audio branding si basa; dall’altro il messaggio era focalizzato solo alla vendita del prodotto e quindi aveva bisogno di trasmettere un mood felice al consumatore per indurlo all’acquisto. Ma l’audio branding non è solo legato all’acquisto, quindi non deve necessariamente essere allegro, ma può abbracciare tutto lo spettro delle emozioni umane a seconda dei valori che quel brand vuole comunicare.

Mancanza di novità

L’utilizzo di musiche già note, come visto in questo articolo oggi annulla gli effetti di brand recall e tende a concentrare l’attenzione dell’ascoltatore sulla musica in sé e non sul messaggio pubblicitario.

Insomma, oggi bisogna ammettere che l’era dei jingle è giunta alla sua definitiva conclusione e che la generazione Y (di cui faccio parte) sarà probabilmente l’ultima ad avere in testa le pubblicità televisive della propria infanzia. Ma sarà anche l’ultima ad averne nostalgia e a saperne ridere. Cosa succederebbe se attorno a un tavolo all’improvviso uno di noi si alzasse e cominciasse a cantare: ooottantanove?